L’ articolo dei nostri Dalena e Coscarella sugli zampognari che lasciavano la Calabria per spingersi nelle varie parti d’Italia arrivando, almeno i più ardimentosi, sino a Parigi racconta la storia risalente di poveri pastori che con «i loro costumi ancestrali e pittoreschi realizzati con le pelli degli animali, i loro larghi mantelli, le scarpe grosse e i cappelli a punta non facevano altro che vivificare la brigantesca (e stereotipata) Calabria di Alexandre Dumas».
Lo stereotipo di cui si fa cenno ci avverte che gli autori non si sono limitati a narrare l’origine di una tradizione che resta vivissima soprattutto nel Mezzogiorno e ancor di più, come è ovvio, in Calabria. E lo stereotipo lo si può chiamare luogo comune, frase fatta. Ma più correttamente esso è l’elemento fondante del pregiudizio.
Lo stereotipo nasce dalla pigrizia intellettuale o dall’angustia della fantasia. Può non essere sempre segno di malevolenza o disprezzo, il pregiudizio invece nella sua apparente innocuità o banalità è una pozione tossica. Stravolge la realtà, deforma l’umanità che ne è colpita. Introduce – non sempre per fortuna- all’intolleranza e al razzismo, che si camuffa talora sotto spoglie quasi ironiche che sembrano non fare danni.
Prima di fare un viaggio nel passato, diamo uno sguardo al presente. Il leader della Lega Salvini, che con una torsione a 180 gradi, è passato dall’improperio ad una sorta di liaison amoureuse con la Calabria facendosi eleggere addirittura a Rosarno, si è emancipato dal pregiudizio contro noi calabresi e meridionali?
Lo credono probabilmente solo quelli che per collocare il proprio didietro su uno scanno comunale o regionale venderebbero anche l’anima al diavolo o, in sua mancanza, a portatori di voti a forte tossicità. Salvini – e con lui decine di migliaia di concittadini del nord – in cuor suo considera i terroni come un male inevitabile.
Se dal presente imbellettato facciamo un salto indietro di qualche decennio, muovendoci tra i palazzi cadenti della cintura torinese il pregiudizio (cioè il rifiuto dell’altro) lo troviamo fisicamente realizzato in topaie come luoghi dove vivere, interi quartieri “signorili” del centro città di fatto preclusi ai non nativi, la socialità possibile circoscritta ai poveri disgraziati che condividevano lo stesso destino.
Ma il pregiudizio, che è una mala pianta difficile da estirpare, ha origini remote. La lettura di un articolo di Gabriele Petrone ci informa che la storia del pregiudizio anticalabrese è antica. Nel Medioevo resisteva la convinzione che la legione comandata della crocifissione del Cristo fosse di Reggio. Un fatto storicamente falso, eppure diffuso in molti documenti.
Per secoli, poi, l’immagine del calabrese rozzo, selvaggio e violento, figlio di una natura altrettanto selvaggia anche se bellissima, ha continuato a farsi strada.
Il massimo fu raggiunto nel Settecento – cito sempre dall’articolo di Petrone – all’epoca degli scrittori-viaggiatori che si spingevano nella nostra regione con lo stesso spirito di coloro che visitavano l’Africa, l’Asia o le lontane Americhe.
Creuze de Lesser scriveva che «l’Europe finit à Naples et méme elle y finit assez mal. La Calabre, la Sicile, tout le rest est de l’Afrique». Per i cicli della storia teorizzati dal Vico in un tempo remoto i calabresi erano assimilati agli africani, con scorno dei pochi nativi odierni che si permettono la tentazione diabolica del razzismo verso i neri.
Sempre per dare corpo a questo viaggio sul pregiudizio a danno di noi calabresi, citiamo un intellettuale nostro corregionale, lo storico Umberto Caldora, che ci ricorda che «l’idea di Calabria che si è diffusa lungo i secoli si è formata essenzialmente attraverso i giudizi e i pregiudizi della cultura europea. Essa ha elaborato un’immagine mitica della regione, coltivando luoghi comuni presenti sin dall’antichità. Se i Bruzi della Calabria antica, infatti, erano visti come ribelli e infidi dai Romani, essi verranno ritenuti addirittura fustigatori di Cristo nel Medioevo. Se in età controriformista e barocca la Calabria sarà per i missionari gesuiti una parte significativa delle Indie di quaggiù, la cultura spagnola del tempo giungerà a identificare Giuda come calabrese».
Dunque nel destino dei calabresi c’è un compagno di strada sgradevole, maligno e nocivo. Lo si chiami pregiudizio, ma tenendo presente che esso come il virus del covid è cangiante e assume modi diversi per manifestarsi. Si nutre di ignoranza, di narrazioni false o ripetitive, molte addebitabili a noi calabresi o almeno ai governanti che un destino maligno – o un voto infelice – talora di regala.
Un esempio? Tra i tarli che mi angustiano non posso non ricordare il mitico corto di Muccino, un concentrato di pregiudizio stucchevole e ben pagato dalle sue vittime attraverso la dabbenaggine dei loro governanti.