Nei giorni scorsi su ICalabresi – sì, proprio iCalabresi, il mio vecchio giornale – è stato pubblicato un articolo di Luca Irwin Fragale, un ottimo ricercatore e narratore, che fa un ritratto assai severo di Cosenza e ne registra il declino che la città mostra in tutti i campi rispetto al passato neppure lontano. Traggo dall’articolo uno dei passaggi più significativi:
E trent’anni fa la percezione che avevo di Cosenza era addirittura migliore di quella odierna. Sembrava una città almeno familiare, ora pare più volgare, più litigiosa, supponente all’inverosimile, tendenzialmente incapace, con una cultura media di livello piuttosto discutibile. Una città piena di troppa gente che non svolge i compiti per cui è pagata e di disoccupati la cui voce non importa a nessuno. Di finti intellettuali (che spesso gestiscono male tanti soldi veri) che non conoscono quasi mai gli argomenti di cui parlano; di istituzioni assolutamente sorde e autocelebrative (e mi raccomando, per contattare i referenti bisogna scrivere su Facebook, mica sulla PEC istituzionale). Una città di approssimazione, maleducazione… devo continuare?
Non c’è compiacimento in questa narrazione, purtroppo veritiera, perché soprattutto per i cosentini che da tempo sono o sono stati lontani dalla città natale, il confronto tra una memoria naturalmente benevola, accompagnata da una relazione affettiva solida, e la realtà odierna alla quale non si fanno sconti per la delusione che essa provoca, è comunque motivo di dolore, o vera e propria ira.
Fragale osserva Cosenza da un osservatorio che coglie la realtà presente, a me che ho nutrito il culto della mia città natale esaltandone con tutti coloro che mi venivano a tiro la sua ospitalità generosa, la sua atmosfera che richiamava serenità, ricchezza nei rapporti con gli altri, senza pretese elitarie supponenti, la sua bellezza, accompagnata da qualche superlativo di troppo lascia molto spazio alla mia esperienza ora che a Cosenza sono tornato a vivere.
E proprio l’esperienza diretta fatta con frequenti brevi ritorni prima, e da pochi anni vivendoci (ma non più con la prospettiva di restarci per sempre) mi porta a condividere le parole di Fragale.
C’è di mio un particolare rancore che non si indirizza a tutta la città, ma a coloro che per incapacità, ignavia, cinico attaccamento al potere sono responsabili di questa “caduta” lenta, ma ora compiuta della nostra città.
Ho ritrovato alcune frasi che scrissi prima di ritornare a Cosenza con un libriccino il cui titolo Solo andata (vi tornerò su più avanti) prova la mia incoerenza. Ne citerò solo brevi parole.
“ Il ritorno tra tanti obblighi te ne impone uno in particolare, quello della conoscenza. Conoscenza di com’è diventata in questo caso Cosenza nei lunghi anni che ne sei stato lontano (…) Essere cosentino sembra non contare molto e mentre cerchi una specie di riconoscimento dagli altri, che ti sentano alla fine come uno di loro, non avendo tu pretese da fare avverti che, se vai oltre la superficialità delle relazioni inevitabili nella quotidianità, quel che prevale, inspiegabilmente, è il sapore della reciproca estraneità”.
A me è toccato molto di più. Il tradimento, la congiura per soddisfare la propria bramosia, la presa di distanza peraltro inutile e intempestiva da parte di colleghi e conoscenti. Mi ha fatto male? Certo perché ha lesionato in modo grave il mio rapporto quasi onirico con la città natale e questo è un danno non riparabile. Ma in compenso non sono così clemente da perdonare chi l’ha prodotto.
Non credo affatto che Fragale non senta disagio o rammarico o delusione nello scrivere lo stato in cui Cosenza s’è ridotta, poco attratta dalla cultura (che comprende tante espressioni, teatro, mostre, cinema dibattiti su temi alti e con relatori adeguati). Se non ci fosse una Galleria nazionale che ha un calendario di eventi di buona qualità, cos’altro i cosentini potrebbero fare? Comprare libri? Una buona abitudine che ha tratto vantaggio dall’isolamento al quale il Covid ci ha costretto. Del Teatro Rendano possiamo solo apprezzare la buona volontà.
Ciò che sorprende è la totale irrilevanza dell’Università nella vita dell’area urbana. Ciò che accade all’interno del campus è top secret. Nel libro rimasto clandestino che ho già citato avevo dedicato un capitolo all’Università senza relazioni”.
Il Sindaco di Cosenza almeno per mettere in mostra la fascia tricolore, che gli dona tanto, si inventa qualche incontro con accademici di passaggio nella sede comunale. Non basta a dire che è aperta una relazione vera tra Unical e Capoluogo.
Grazie alla clandestinità del libro posso permettermi qualche citazione, tratta da uno scritto di Franco Bartucci storico fedele dell’Unical.
“L’Università della Calabria era e doveva essere unica in Italia, diversa dalle altre, in quanto laboratorio di sperimentazione didattica, scientifica, sociale, culturale e civile in virtù di un campus universitario (…) luogo di attrazione e presenze a carattere regionale, nazionale e internazionale, strumento e cuscinetto di collegamento con le città di Rende e Cosenza”.
Piuttosto che strumento di collegamento l’Unical ha indotto Rende a cingersi di virtuali mura merlate per non confondersi con il Capoluogo.
Sempre Bartucci ricorda il fondatore prof. Andreatta che “invita l’Università a scendere in piazza e sulle strade della Calabria con il proprio gonfalone accanto ad ogni morto ammazzato quale denuncia di lotta alla ‘Ndrangheta e testimonianza di valori alti per una Calabria diversa e fortificata nei sentimenti e nella volontà di appartenenza adunata mese unito”.
Parole nobili che sono rimaste tali. La cosiddetta “terza missione” che significa una relazione stretta e proficua con il territorio somiglia tanto alla clandestinità, molto meno grave, del mio libricino.
Cosenza ha per fortuna mantenuto tra la gente comune quei valori di umanità, accoglienza, tolleranza che l’hanno sempre distinta.
Ma se volgiamo lo sguardo verso l’alto, in quella nuvola tossica, in cui si collocano le cosiddette elites, il giudizio severo di Fragale cade a pennello.
Politica da “caporale, massoneria deviata che ha aperto porte e finestre alla ’Ndrangheta finanziaria, tutti i cosiddetti “portatori di interessi” non sono una presenza dinamica e generosa per la città, sono un pennacchio che piace, conviene mostrare ad ogni occasione. Del tipo: “Noi semo noi, e voi nun sete un ca..”.
Non vorrei ripetermi ma in quale luogo d’Italia con il consenso omertoso di tutti è stata “rubata” una Fondazione privata che è o era anche luogo di cultura e di cittadinanza attiva e per far piacere a chi ama solo la stampa velinara è stato chiuso un giornale con tutti i parametri del successo?
De minimis non curat preaetor, non voglio ignorar neppure l’accenno che fa Fragale all’inutilità della PEC per comunicare con il Comune o altri Uffici pubblici. Non solo non è una battuta, ma è realtà comprovata.
In tempi nei quali il Sindaco Franz Caruso e il più modesto sottoscritto si frequentavano mi fu vivamente sconsigliato dal primo cittadino di utilizzare quel futuribile mezzo chiamato PEC. Mi disse che le mail venivano lette in tempo reale, le PEC dopo aver soggiornato in qualche ufficetto un paio di settimane finalmente arrivavano al destinatario.
Se questa è la realtà attuale di Cosenza a che serve scrivere, denunciare, perché la gente esca dal letargo e provi, almeno provi, a cambiare almeno alcuni residui preistorici che bloccano le menti e inaridiscono il cuore.
A che serve fare, per due volte, oggi con I Nuovi Calabresi, un giornalismo libero se non serve alla causa?
Rispondo con una citazione di un bravo giornalista Claudio Cordova che ha scritto la post fazione al libro Sodomia di Di Giorno.
“I giornalisti (liberi) hanno il brutto vizio di pensare che i loro scritti possano cambiare qualcosa. (…) Ma poi subentra la delusione “perché quando certe logiche, certe dinamiche, ritornano sempre o non vanno mai via, nonostante le abbia raccontate e spiegate nei minimi dettagli (…) allora, forse, è “colpa” di chi scrive e non di chi legge”
La domanda che in tanti ci poniamo: “Smettere di farlo? Smettere di ascoltare il canto delle cicale’ la tentazione è forte (…) Non è un buon momento per fare giornalismo: (…) perché il Potere si sta prendendo tutte le sue rivincite. (Ma è sempre un buon momento per raccontare e ancor prima per ascoltare le cicale che cantano. Che sono un po’ come le lucciole di Pier Paolo Pasolini: se smetteranno di esserci, vorrà dire che sarà troppo tardi”.
1 Comment
Le città somigliano molto a se stessi!
A come si è e a come si sta in quel preciso momento della propria vita.
Gli stati d’animo personali (insieme alle passioni, agli interessi, alle amicizie vere…) riflettono inesorabilmente il posto in cui si vive.