Come fa di solito un inviato speciale che vuole fare un ritratto aggiornato e non banale di un territorio che conosce poco occorre utilizzare le “fonti” soprattutto costituite da articoli scritti da giornalisti bravi e non timorosi.
Paride Leporaci è uno di questi, come lo è Arcangelo Badolati, e quindi dei loro articoli mi servirò. La bizzarria di questo particolare “inviato speciale” è che lui, l’inviato, non è un forestiero, ma è un cosentino puro sangue e quindi non dovrebbe aver bisogno di pescare nell’acqua di altri.
L’osservazione è parzialmente fondata. Molti fenomeni ambigui li ho colti e anche raccontati, molte facce “mascherate” le ho individuate, certe consorterie le ho in parte conosciute.
Ma non basta perché pur cosentino sono venuto a Cosenza con un ricordo fantasioso, affettuoso, che la realtà ha rapidamente spazzato via. E quindi per non peccare di presunzione ricorro a colleghi che conosco e stimo.
Ma non parto da 0, la vicenda dell’“esproprio” di Villa Rendano e della chiusura in perfetto stile fascista o mafioso de ICalabresi sono stati utili come un corso intensivo sul malaffare, sull’omertà, sul timore che i cittadini hanno di non dire una parola in troppo su temi scabrosi.
Ma torno a quanto ha scritto Paride Leporaci sul Corriere della Calabria pochi mesi orsono.
“La prosa giudiziaria di Gratteri e collaboratori definisce il perimetro dell’inchiesta “Reset” che dà un punto di vista inquisitorio e chiede un processo per 245 imputati con circa 300 capi d’imputazione. Benvenuti a Cosenza città di ‘ndrangheta. Rimossa nella testa dei suoi abitanti che ci convivono da sempre facendo finta di niente. Città mai isola felice, con il suo Giro che si “appara” al notabilato”.
Un mito, un’illusione nella quale noi nativi ma non residenti ci siamo in buona fede cullati. Cosenza è diventata ciò che non avemmo voluto scoprire. Ci bastava e avanzava sapere i nomi dei capi della malavita, spazzati via – i più noti – tra carcere e agguati ma ’ndrangheta proprio no. Era la nostra trincea per dire che Cosenza era speciale, che la mafia era di casa altrove e questo ci aiutava a dire che Cosenza è altro rispetto al resto della Calabria e via di seguito con la litania dell’Atene del mezzogiorno, della città colta – che però legge poco i libri che altrove vanno a ruba – della città accogliente che però – a parte gli intimi – mai ti offre di mangiare una pizza insieme sapendoti solo in albergo. Qualcosa lo avvertivi e io, che non sono una volpe quanto a furbizia, lo scrissi in un libretto dal titolo eloquente “Solo andata”.
Anche qui sbagliando perché l’editore che scelsi era quel Walter Pellegrini che non fece nulla per promuoverlo, niente Terrazza Pellegrini, niente Antonietta Cozza onnipresente, niente Attilio Sabato che per anni mi ha osannato su Facebook o alla TEN addirittura celebrando anche meriti e virtù che non posseggo chiamandomi “risorsa per la Calabria”, depennato due ore dopo un affettuoso incontro privato.
Cosenza non è innocente, non è diversa e migliore di Vibo o Crotone, non è più colta e accogliente del resto della Calabria, è come tutto il resto soffocata da una cupola di poteri noti e occulti che rendono quasi eroico manifestare con la parola e con gli scritti le proprie convinzioni, alla faccia dell’art. 21 della Costituzione.
Se ti rivolgi ad un avvocato bravo e noto devi prima accertare se è libero da condizionamenti o interessi impropri. Se scegli per il tuo giornale il meglio dei giornalisti sulla piazza, li paghi bene e gli dai un contratto regolare scopri che bravi lo erano veramente ma anche bravi a “prendere le distanze” dal loro direttore e collega sospettandoti, non si sa su quali basi, di “chissà c’ha fatto”. Risposta breve e volgaruccia: “Un cazzo”.
Se lo si può dire avendo solo la colpa di essermi fidato di quattro traditori indegni e avendo una storia personale e professionale che per dignità mi ha indotto a 54 anni a lasciare un lavoro prestigioso e molto molto ben pagato.
Ma questo a Cosenza vale poco o niente, perché va a smentire una banda del buco e la combriccola dei sostenitori. Ne parleremo, ma vi anticipo una piccola scoperta che non è merito mio, ma di un paio di persone a me sconosciute, ma ben addentro alle segrete cose degli amanti di riti e di grembiuli e analoghe simbologie.
Le cose sono andate nella vicenda Fondazione Giuliani in modo diverso, sempre ignobile per le persone coinvolte e per l’intera città, ma con scenari più corrivi, non bucanieri all’arrembaggio di un veliero ricco di oro e mandanti con feluca, ma solo avidi e infidi usurpatori, degni di disprezzo e non di timore.