Un flash autobiografico solo come premessa di un articolo che parla di tutt’altro.
Come è normale sia, con il trascorrere degli anni, ho sentito che il timore più grande era che la mia vita scorresse sui binari della “mediocrità”, nel senso di banalità, irrilevanza come bilancio esistenziale. Niente a che fare con l’ambizione, con la bramosia di denaro e di potere.
A riprova del fatto che la mediocrità, comunque intesa, è la scelta peggiore se dal singolo si tramette a molti altri, cioè diventa un problema sociale, cito il canadese Alain Deneault, autore di saggi sulle politiche governative, sulla crisi del pensiero critico:”I poteri costituiti non deplorano i comportamenti mediocri, li rendono inevitabili”.
Temo che il mio timore sia stato spazzato via con troppa forza, con molte trappole e difficoltà personali, soprattutto con una ricaduta sulla vita non solo mia, ma di tutta la famiglia.
Ora usciamo dall’astrattezza. Parlo dell’entrata per concorso pubblico come dirigente nelle Ferrovie con il compito di potenziare e riorganizzare la struttura per la comunicazione e le relazioni esterne. Lasciavo a malincuore la mia vera scelta professionale, insegnare nei licei (niente Università, perché il ’68 bloccò per 10 e più anni ogni possibilità di accesso come assistente o portaborse. Oggi si chiamano e non sempre sono ricercatori). Entrai nelle FS ferme al pleistocene, un non ingegnere era considerato un intruso, ma con la riforma cambiò tutto, non proprio in meglio. Il mio ruolo mi metteva in contatto continuo con Ligato presidente, l’essere calabrese facilitò sul piano personale i nostri rapporti. Ma ben presto capii che l’aumento di peso e valore della comunicazione, con vertici tutti designati dai partiti, rendeva appetibile il mio incarico – peraltro con uno stipendio basso – e che il credito che m’ero guadagnato lavorando duro e viaggiando come un pendolare serviva a poco. E infatti, con Ligato che era di fatto solidale con me, non per affetto ma per convenienza, mi informò che un ampio schieramento, PCI compreso (ma va là che combinazione), voleva il giornalista Gino Nebbiolo della RAI, il cui nome campeggiava in testa alla lista della P2. Vi risparmio i particolari di quasi due anni di fuoco: Nebbiolo scomparve dall’orizzonte pochi giorni prima che il CdA lo nominasse, il 10 gennaio 1987. Cosa era accaduto? Lo capii un paio di giorni dopo quando i giornali aprivano tutti con il fermo di noti piduisti, Gelli compreso, perché la Procura li riteneva responsabili o coinvolti in una delle stragi ferroviarie a Bologna o dintorni.
Chiusa la parentesi, dopo un’apparente calma, si riapri la giostra dei candidati a sostituirmi. In questo caso la P2 non c’entrava ma era De Mita, segretario DC, a volerlo e Ligato disse di sì.
Ma altra sorpresa, quando il Cda deve votare per il nuovo acquisto, Ligato va in minoranza. Bocciato perché favorevoli alla mia permanenza? No, per dare il segnale a Ligato che il tempo del monarca assoluto era finito.
Vi risparmio il resto di una storia sconosciuta a quasi tutti e arrivo all’ultimo passaggio. Colazione con l’uomo di fiducia di Ligato, Mollica il padre del giornalista RAI, oggi malauguratamente privo della vista, e un terzo sconosciuto. Solo dopo una conversazione che si potrebbe definire “riservata” che Mollica spiattellava senza freni mi venne la curiosità di sapere chi fosse il terzo commensale. Era un prefetto della Presidenza del Consiglio legato ai servizi segreti.
La colazione si concluse con le parole del Prefetto che mi comunicava di aver “superato” l’esame per restare alla guida della Comunicazione di FS in condominio con il giornalista Carlo Gregoretti, amico di Scalfari, ottimo professionista, più amante del mare che dei binari, e amico corretto.
Pur riassunto molto, questo ricordo mi conferma che la “mediocrità” intesa come condizione grigia e tranquilla non è stata mai la compagna della mia vita.
Ora con un salto temporale di oltre 30 anni, sempre con i calabresi, ma questa volta cosentini come me, mi sono trovato coinvolto in una vicenda forse meno importante (Cosenza non è l’ex gigante ferroviario, investitore pubblico numero 1 o giù di lì, con tutti gli affari connessi) ma tutt’altro che banale.
Io stesso l’avevo giudicata un evento barbaro, realizzato da quattro falsi amici infedeli, dei traditori insomma, con il sostegno silenzioso e complice di tutta la cupola dei poteri locali, con uno scambio tra Fondazione, lasciata come preda da spolpare ai corsari, e chiusura de ICalabresi perché troppo libero, troppo letto, troppo autorevole, addirittura spesso citato come fonte dai grandi giornali nazionali.
C’è anche questo nella storiaccia di Villa Rendano, ridotta a contrabbandare come giornata della cultura un libro su Morano, centro mondiale di ogni interesse della nuova vice presidente Catanese, che sarà ricordata come la persecutrice seriale di una giovane costretta a dimettersi per aver osato dirle che per un progetto che stava a cuore alla “pollinara” che doveva avere l’autorizzazione del presidente, responsabile della gestione soprattutto economica.
Ma c’è molto di più. È uno spaccato che conduce nel ventre della città, con tutte le sue macchie nere, le sue ambiguità e connivenze. Se leggerete i libri di Saverio Di Giorno, Sodomia e Teorema Cosenza, ne saprete di più.
È un disegno non chiaro, ma intuibile, non solo di chiudere ICalabresi, ma di far rinascere in qualche modo il progetto iniziale che Walter Pellegrini aveva descritto con il linguaggio di Che Guevara (che si fa per gli amici!), con un direttore, bravo, amico e coautore dei saggi di Nicola Gratteri, un riferimento autorevole, senza macchie, anche se lontano oggi dalla Calabria venerato come San Francesco di Paola da moltissimi calabresi.
La nostra storia che è credibile, perché fondata su alcuni fatti certi, ma non ha il timbro dell’ufficialità merita non un accenno criptico, ma un articolo intero. E torneremo presto ad occuparcene.
Quello che voglio sottolineare è che rubando Villa Rendano i quattro hanno soddisfatto i loro appetiti, ma le istituzioni cosentine, il Comune di Cosenza con Occhiuto e Franz Caruso in primo luogo, hanno “il merito”- quello che è una colpa per le persone normali per i professionisti dell’“anormalità”, che in molti casi fa rima con illegalità, è un merito – e il privilegio di essere i rappresentanti della prima città che ha tradito un patto, sotto forma di convenzione, che oggi ha un nome “sussidiarietà” e un Codice che ne detta gli obblighi, compreso quello di non “fottere” (che vuol dire molte cose, fregare alla memoria Sergio Giuliani, sottrarre ai cittadini un polo culturale e museale per farne “la location” per fritti e cuddrurieddri o, peggio, per fare “marchette”- l’ultima per compensare ancora la Catanese non soddisfatta di aver ricevuto in dono la testa “mozzata” di una brava dipendente come Orfeo, presentare un libro su Morano come evento culturale da annunciare con pifferi e pifferai.
Cosa possono fare i cittadini che hanno la capacità di scegliere? Quella di non prestarsi con la loro presenza in Villa a legittimare un atto di rapina.
Per il “guardiano del faro” stanco e bisognoso di respirare l’aria pura della Maremma toscana, al posto di quella mefitica con cui è stato accolto dalla sua città natale, c’è l’obbligo di presentare il primo ricorso per violazione dell’art.55 del Codice del Consumo al TAR di Roma. Se andrà bene un’altra patacca nera sull’immagine della città.