Il ritorno al potere dei laburisti a Londra – dopo 14 anni di cattivo governo da parte dei conservatori che uscita di scena la Thatcher hanno scelto il peggio come loro leader – un caso unico la Tuss, Primo Ministro tory per soli 45 giorni sufficiente fare danni permanenti all’economia e all’immagine del Regno Unito – è un elemento positivo soprattutto per gli inglesi.
Molti italiani che vivevano da anni a Londra – tra questi cari amici – o l’hanno lasciata definitivamente o vi ritornano saltuariamente perché anni di permanenza non possono non avere creato motivi anche pratici per farvi ritorni temporanei.
Non parlerò dei guasti terribili procurati dalla Brexit, una scelta masochistica, perché l’Unione Europea era stata con la GB molto generosa riducendo il contributo economico che ogni Stato membro paga e che recupera ampiamente con i finanziamenti comunitari e consentendo che non applicasse il trattato di Schengen che ha, o aveva, di fatto cancellato molte barriere ai confini.
Chi l’ha sperimentato parla chiaramente di un disastro che sarà difficile risanare in tempi brevi o mediolunghi.
Ma questo è un problema dei britannici, soprattutto di quelli lontani da Londra e dalle altre grandi città. È un classico che i cittadini delle aree extraurbane siano più vulnerabili dinanzi alle promesse mirabolanti che hanno tutti una base comune: l’ostilità verso gli immigrati, in questo caso soprattutto europei.
“La paura” inoculata dal Salvini inglese di turno era “per l’arrivo massiccio del lavoratore polacco, in particolare per il “pittore” (edile) polacco.
Non poteva essere individuato come accade nel resto d’Europa, con la stessa idiozia, negli immigrati di colore perché la Gran Bretagna già impero, già a capo del Commonwheal, è stata obbligata e lo è ancora ad accogliere i suoi ex sudditi da tutti i continenti. Quindi no ai bianchi, ai gialli e a pochi neri – una ridicola selezione cromatica che nasce dall’illusione che fatta la globalizzazione non si sia attivato un movimento da sud a nord, dai paesi più poveri a quelli avvertiti come più ricchi e fortunati.
Ma credo che per moltissimi italiani della mia generazione, appena iscritti all’università a metà degli anni ’60, la porta sbarrata dalla Brexit è stata vissuta con rabbia, con dolore e con ostilità. La Gran Bretagna con la sua musica, con la sua moda innovativa giovanile, con il suo dinamismo ha modificato come pochi il costume degli europei in particolare i giovani.
Chi poteva si iscriveva a scuole per imparare l’inglese, quello vero non quello fasullo e pressoché inutile che si insegnava a scuola con docenti quasi tutti nativi. Il risultato lo ricordiamo noi anziani: dopo tre o cinque anni di un paio d’ore settimanali di lingua straniera – francese dapprima dominante, poi inglese e per pochi come il sottoscritto spagnolo, a quel tempo inutile anche per fare un viaggio nella Spagna arretrata del Franchismo – non andavamo oltre this is the table.
Quei soggiorni che si prolungavano per mesi – nel mio caso quasi un anno – e che si ripetevano con la scusa di praticare l’inglese degli inglesi non quello cosiddetto “internazionale” che funziona bene ovunque, ma non basta se parli con un nativo inglese o troppo raffinato, perché laureato a Oxford o troppo incolto e quindi con una lingua guastata da dialetti e strane combinazioni linguistiche.
Noi bene o male l’inglese l’abbiamo appreso (e poi spesso dimenticato), il vento di cambiamento radicale e travolgente della musica, della pop art, della moda, l’abbiamo sentito e ci ha fatto bene. A parte l’immangiabile e costosissima cucina inglese, alla quale eravamo obbligati per ragioni economiche – a quei tempi era proibito portare fuori d’Italia più di 500mila lire, che bastavano a vivere male in una stanzetta lercia per una settimana – non c’erano i McDonald, i Burger King, pochi e cari ristoranti italiani e quindi eravamo obbligati ad andare nei pub dove si bevono pinte di birra, e non era il nostro caso, ma si mangiano stuzzichini come cetriolini o minitoast che non ti saziavano.
In compenso era facile e meno costoso andare alla Queen Elisabeth Hall ad ascoltare musica classica senza doverti imbellettare come era obbligatorio fare in Italia, ora solo nella provincia meridionale, acculturandoti e soprattutto mangiucchiando salatini, cetriolini, strani miscugli e yogurt a prezzi abbordabili.
Per questi motivi non più giovani siamo incazzati con gli inglesi, perché ci hanno tradito e non hanno capito che quei giovani non solo europei ma arabi, persiani, giapponesi ecc… si arricchivano con idee nuove e meno parruccone – lì si vedevano le gambe e qualcosa in più grazie alla minigonna, da noi in tv si vedevano le Kessler e le ballerine in genere con i mutandoni della nonna – ma anche loro ci guadagnavano non solo economicamente ma anche perché scoprire che c’era tutto il resto al di fuori del cadente o morto impero britannico, cosa che era per loro una assoluta scoperta. E oltre ad essere “incazzati” con gli inglesi lo siamo anche con l’unione europea che li ha coccolati, pregati, corteggiati oltre ogni limite di decenza.
Noi europei dobbiamo fare la fila come i guyanesi per esibire il passaporto, aspettare che un poliziotto o peggio una poliziotta ti faccia aspettare 10 minuti per accertare che essendo italiano non sei imparentato con Al Capone (peggio quando devi lasciare la Gran Bretagna e devi prendere a breve un aereo, un paio di volte il mio comprensibilissimo “và a fare in cu..” ha richiesto con voce stridula della malcapitata l’intervento immediato della security che mi ha minacciato ma con molta cortesia ed io gli ho ripetuto con molto stile british che l’hostess perditempo apposta era una perfetta stron…. No, sorry asshole (che sempre str… significa).
Ora vorrei fare agli inglesi che bussano alla nostra porta ciò che hanno fatto a noi: pretendere passaporto, certificato penale, albero genealogico fino alla terza generazione, obbligarli a file controllo ingressi di mezz’ora, perdere tempo specie se hanno un aereo che rulla sulla pista e infine pensare, non dire per educazione, go back to Kingdom, hurry up please.