Negli anni ormai lontani, quando era sul tavolo la questione meridionale e si dibatteva delle politiche industriali e per lo sviluppo economico e culturale, i più qualificati meridionalisti – una definizione che metteva insieme economisti, sociologi, intellettuali di più discipline, primi tra tutti il prof. Saraceno, Gabriele Pescatore a lungo presidente della Cassa per il Mezzogiorno, Silos Labini e altri – si ripeteva come un mantra che se si voleva un reale e solido sviluppo dell’Italia, avendo quasi tutti soddisfatti i relativi parametri nelle regioni settentrionali, lo sviluppo non poteva che venire dal Sud.
Nacquero allora l’acciaieria di Taranto, il polo chimico in Sicilia, le società di produzione ferroviaria in Calabria, il polo chimico in Sardegna.
Come è andata a finire lo sappiamo tutti: un completo fallimento e in aggiunta la devastazione sino all’invivibilità nelle città e nei territori interessati.
In un saggio di cui non ricordo né autore né titolo, so soltanto che si ragionava sui pro (pochi) e sui no del Ponte di Messina, ricordo bene una domanda che l’autore si poneva: “Chi l’ha detto che il Sud deve essere come il Nord?”.
Io ho intesa la domanda come il rifiuto di modelli industriali ed economici che, sia pure con molti guasti, avevano portato benessere a quei territori e calamitato centinaia di migliaia di meridionali che trovarono si lavoro, ma anche le baracche e i tuguri dove vivere, le sole abitazioni che non avevano un cartello al portone con su scritto “Non si affitta a meridionali”.
Non si decide dove piantare un polo industriale a casaccio, come i dadi su un tavolo, senza tener conto sia delle alternative compatibili con le regioni del Sud, lo sviluppo di un turismo rispettoso del contesto territoriale o della disponibilità di infrastrutture soprattutto nel campo della mobilità e dei trasporti, allora inesistenti ed ora molto carenti.
Possiamo cercare i colpevoli? Li troveremo sicuramente anche negli ambienti industriali settentrionali perché queste “cattedrali nel deserto” nascevano con risorse pubbliche. È accaduto anche con lo stabilimento Fiat di Melfi e con la fabbrica dell’Alfa sud a Pomigliano d’Arco.
Ma non ripetiamo il giochetto autoconsolatorio per il quale i Borbone di Napoli avevano portato un relativo benessere ai loro sudditi – dove diamime si trova traccia di questa benevolenza regia? – e i Piemontesi solo fame e miseria: è vero che il sud non trasse alcun vero beneficio dall’Unità d’Italia ma questo accadde soprattutto per l’alleanza di fatto stretta tra Stato unitario e latifondisti e amministratori riciclati dai Borbone ai Piemontesi. Costoro sono stati i ceti che garantivano ordine, lotta al banditismo, risorse aggiuntive in cambio della consacrazione del loro rinnovato potere. E per non parlare solo del lontano passato, chi ha voluto senza lucidità e senza una visione strategica la devastazione delle coste (il de profundis per il turismo) e la nascita di cattedrali nel deserto, perché ogni realtà industriale necessitava di filiere complementari e di infrastrutture efficienti?
Grazie a Giacomo Mancini – magari con il limite di un approccio sentimentale – abbiamo da pochi anni un’autostrada che era nata sul percorso e con i limiti preesistenti, il Porto di Gioia Tauro che da anni aspetta i binari che dalle banchine lo colleghi con la ferrovia (che mai sarà ammodernata, tanto meno con l’alta velocità). Non me ne vengono a mente altre.
E per non volare troppo in alto quali ragioni ci sono perché Cosenza sia il solo capoluogo senza un nuovo ospedale già finanziato da molti anni? La spiegazione che i cittadini danno è di una brutale chiarezza: non si sono messi d’accordo dove farlo e come avere ciascuna la parte che considera un beneficio dovuto. E la stessa spiegazione che viene data per la mitica metro leggera Cosenza – Unical, che non si farà mai, ma ppe fa a muina – come d’uso nel mitico Regno dei Borboni, si fa finta che con 20 anni di ritardo il tram si farà. Tanto se sarà necessario si metterà in piedi una copia dei NO TAV chiamandola NO TRAM, come scusante.
Come vedete siamo partiti dal meridionalismo finito nel dimenticatoio, per passare alla rivalutazione dei Borboni napoletani, siamo planati sulla velleitaria scelta di replicare nel Sud il modello di sviluppo industriale del nord con il solo risultato di aver devastato i territori, ed infine siamo atterrati, direi quasi sfracellati al suolo, con le piccole e grosse camarille cosentine.
Una domanda finale, se mi è consentita: ma vista questa serie deprimente di errori o manifeste cialtronerie fino ai nostri giorni non sarebbe il caso di chiedere con cortesia ai politici, ai falsi investitori e veri prenditori, “scusate, fateci nu piacere, iatevenne”? La lingua napoletana, imperfetta, è quella giusta per i nostalgici e gli emuli dei Borboni.