È scontato, anche se non originale, che inizi questo articolo con il quale mi chiedo: Ma chi governa veramente la Calabria? Personalmente mi chiederei: chi governa Cosenza? – citando la commedia di Pirandello “Così è (se vi pare)” -.
Come sapete l’opera è incentrata su un tema molto caro a Pirandello, cioè l’inconoscibilità del reale, di cui ognuno può dare una propria interpretazione, che può non coincidere con quella degli altri. Si genera così un relativismo delle forme, delle convenzioni e dell’esteriorità, un’impossibilità di conoscere la verità assoluta che è ben rappresentata dal personaggio di Laudisi.
Che la verità assoluta esista o meno è cosa tantomeno irrilevante: è questo il messaggio finale di lettura dell’opera, dove Pirandello mette lo spettatore di fronte a una sorta di “barriera sul palcoscenico”, costringendolo a interrogarsi sul significato stesso di ciò che ha appena visto e sull’assenza stessa di significato.
Ma veniamo alle domande iniziali. Chi governa, che non vuol dire chi comanda da noi?
Se vogliamo essere pedanti e prenderci in giro, dovremmo dire che a Cosenza governa, con la sua Giunta, il Sindaco Franz Caruso. Se lo chiedete ai cittadini, la maggioranza, presi da improvvisa amnesia – solo fasulla per “non esporsi” – non vi risponderanno subito e a domanda replicheranno con un’altra domanda “Chi? Franz Caruso”.
È troppo scontato, perché a parte l’impalpabilità politica del “socialista massone”, è vero che in genere la politica qui in particolare conta poco. Se ne parla solo per sapere se vale ancora la pena genuflettersi con Madame Fifì o il consorte Adamo, o con uno dei Gentile sempreverdi.
Ma allora pensiamo alle cariche istituzionali, il Prefetto, il Questore, l’Arcivescovo. Ci andrei cauto perché guarda caso queste autorità quando arrivano a Cosenza contano poco perché di prima nomina o vicini alla pensione. Quanto all’Arcivescovo, dopo un anno dal suo insediamento, se ne sa poco. Si vede e parla con molta parsimonia.
Allora bando ai formalismi, andiamo in ambienti che di solito contano molto e a lungo. La Massoneria è forte, per dimostrarlo basterebbe vedere la sede cosentina, che sembra il Partenone, del GOI, il Grande Oriente d’Italia. Sappiamo che quasi tutti i Sindaci cosentini erano massoni, come anche i Presidenti della Repubblica. Nulla di cui meravigliarsi perché massoni erano tutti coloro che hanno creato il Regno d’Italia fondandosi sui valori del nostro Risorgimento. E aggiungo nulla di peccaminoso perché la P2 è stata un’anomalia cancerosa ed io, con la solita fortuna, quando ero alle FS me la sono trovata contro perché al mio posto volevano il giornalista piduista Gino Nebbiolo. Alla fine non dico che ho vinto io, perché hanno voluto che vincessi sia la Massoneria “buona”, sia i Servizi segreti perché pare che non avessero di meglio, sia Vico Ligato, che alla fine fece prevalere anche la comune calabresità.
Ma ora anche questo riferimento solido lo è molto meno. C’è la componente Massonica storica e c’è anche quell’ibrido che si chiama Massomafia che ha vinto il Congresso Nazionale.
La Massomafia dovrebbe scriversi con le prime lettere minuscole e le seconde maiuscole, cioè così: massoMAFIA. Tutto sarebbe più chiaro e, ad esempio, pur se nella storiaccia di Villa Rendano – secondo fonti autorevoli – essa c’entra poco perché nata inside, cioè fatta in casa ma con protettori insospettabili e ormai disvelati, non è affatto detto che un massomafietto non abbia collaborato.
Quindi massoMafia in genere conta eccome e quindi resta una pedina importante.
Ma in genere da Marx in poi – sia pure con giudizi molto diversi dal presente – le società odierne, passando dalla storiografia alla realtà, hanno sempre affidato alla borghesia la guida dei processi di cambiamento e modernizzazione della società civile, dell’economia, della politica e della cultura. Oggi questo continua ad essere vero nel settentrione d’Italia, sia pure definendola ceto medio, che è molto meno, ma non nel Sud e non parliamone proprio in Calabria. È borghesia quella che è incolta, assoldata se del caso dalla ’ndrangheta, che non garantisce i diritti dei cittadini – o meglio va CONTRO di essi – anche nelle aule dei Tribunali e delle stanze delle Procure?
A qui per brevità e maggior competenza mi affido ad una lunga citazione alla quale darei pure un titolo a parte.
Borghesia, una definizione
Borghesia non è più un insulto. Questa è la novità. Non che la borghesia sia stata erosa dalla crisi sociale e dall’inattualità della separazione in classi. Il disprezzo marxista per una certa idea di vita si è tramutato in nostalgia, che accompagna sempre ciò che non c’è più. Signora mia, non esiste più la buona borghesia di una volta. Liquidata quanto l’interfaccia naturale, la classe operaia. Scomparsa dal discorso pubblico. Finito. Chi era il borghese che catalizzava l’odio? Forse l’industriale, lo statista, il funzionario, l’intellettuale e il capitalista illuminato alla Olivetti, oppure il commenda sbeffeggiato da Dino Risi con l’amante ragazzina e la barchétta? Per Massimo Cacciari, «nel lessico di una certa sinistra europea e per il movimento operaio, il borghese altri non era che il capitalista, l’imprenditore. Ma l’idea di borghesia non si può ridurre a questo». Nel senso che la borghesia non è identificabile soltanto con la sfera economica. Anzi, sotto certi aspetti la trascende completamente. Borghesia non definisce tanto uno status economico quanto una dimensione di educazione, di formazione, di sensibilità, di tatto. Il borghese si caratterizza per moderazione e misura. Misura nel rapporto con gli altri e nell’espressione dei propri sentimenti. Pudore dei propri stati d’animo. È un uomo delle distinzioni, del dubbio. Sentimenti morti, anacronistici. Ecco allora che quel borghese lì è diventato archeologia. Oggi assistiamo alla vittoria dei Trump o di quanti vorrebbero assomigliargli. Un declino delle buone maniere e dei buoni sentimenti di cui scrive anche Ernesto Galli Della Loggia, «…Un Paese incolto nel quale ogni regola è approssimativa, il suo rispetto incerto, mentre i tratti d’inciviltà non si contano. Basta guardarsi intorno: sono sempre più diffuse e sempre meno sanzionate dalla condanna pubblica l’ignoranza, la superficialità, la maleducazione, la piccola corruzione, l’aggressività gratuita…».
Per Reggio Calabria, occorre in primo luogo tener presente la seguente osservazione di Gramsci: “Il ‘morto di fame’ piccolo-borghese è originato dalla borghesia rurale: la proprietà si spezzetta in famiglie numerose e finisce con l’essere liquidata, ma gli elementi della classe non vogliono lavorare manualmente: così si forma uno strato famelico di aspiranti a piccoli impieghi municipali, di scrivani, di commissionari, eccetera. […] Molti piccoli impiegati delle città derivano socialmente da questi strati […]. Il ‘sovversivismo’ di questi strati ha due facce: verso sinistra e verso destra, ma il volto sinistro è un mezzo di ricatto: essi vanno sempre a destra nei momenti decisivi e il loro ‘coraggio’ disperato preferisce sempre avere i carabinieri come alleati.” (Gramsci, 1953)
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Così se vi pare.