In Calabria, tra i più giovani almeno (nel termine giovani intendo compresi anche quarantenni e più), si conosce poco ciò che è stata l’emigrazione dei meridionali, calabresi compresi, negli anni Quaranta e Cinquanta. Si ricordano perché diventò uno stereotipo: gli emigranti con le valigie di cartone, con pranzo e cena preparati in casa, prima di partire, da mogli e madri destinate a non vedere per anni i propri congiunti. Forse si ricordano le baracche e le soffitte umide nelle quali questi lavoratori, partiti come ultimi della terra, vivevano tra compaesani. Ma è l’emigrazione interna, cioè a senso unico, da Sud a Nord – come ricorda su La Repubblica Francesco Billari, Rettore della Bocconi a Milano – che “ha determinato il boom del Nord Italia”. Ora, salvo sporadici episodi di razzismo becero – ho in mente le immagini del tifoso di Verona che urla in direzione della squadra di calcio di Cosenza “ssimmie, ssimmie” -il razzismo ha lasciato il posto al pregiudizio nei nostri confronti e quegli emigranti sono scomparsi o sono tornati per trascorre gli ultimi anni nelle case riadattate un poco alla volta nei propri paesi diventati luoghi del “non finito”.
È nella storia antica dei calabresi lo spirito di accoglienza, la tolleranza, con le ovvie eccezioni, nei confronti dello straniero, del “diverso” da noi, e mi sorprende la presenza a Cosenza di un numero proporzionalmente alto di stranieri. Uomini e donne del Maghreb, cinesi, filippini, nativi dei paesi subsahariani.
L’Italia, o una parte di essa, anche testardamente, non vuole accettarlo ma tutta l’Europa è diventata una società multiculturale. Ci sorprendiamo quando vediamo ragazzi adolescenti di origine africana parlare tra di loro in dialetto cosentino o con accento cosentino. È confortante che i bambini e i ragazzi da noi non si accorgano, perché irrilevante, del colore della pelle dei loro amici o compagni di scuola.
È invece sconfortante che tanti italiani nutrano sentimenti di ostilità senza rendersi conto che denatalità e invecchiamento della popolazione ci obbligano già oggi ad accogliere non indiscriminatamente immigrati, da inserire nella nostra società, prima ancora che nelle fabbriche, nei campi, nelle case con anziani bisognosi di assistenza, dal punto di vista culturale e relazionale.
La pubblicità, che anticipa per sua natura la realtà, in evoluzione da tempo produce quasi solo spot con giovani di colore. Negli Usa c’è una legge apposita che prevede nelle produzioni cinematografiche quote prefissate delle minoranze. Da noi non occorre una legge, basta la semplice conoscenza della realtà che ci circonda.
Ma siamo partiti dall’emigrazione interna direzione Nord Italia o resto del mondo. Quello che era negli anni 40 e 50 una necessità per sopravvivere a costo di non vedere la propria famiglia per anni o, forse per sempre, oggi è certo prioritariamente ricerca di lavoro per giovani qualificati, ma anche libera scelta perché l’ pertura al mondo è un’opportunità per crescere professionalmente e sperimentare che la globalizzazione, che è nata soprattutto per logiche mercantili, conquista di nuovi mercati, senza prevedere che anche noi potevamo essere conquistati da paesi che fino a pochi decenni fa chiamavano “da terzo mondo”, è un processo obbligato e irreversibile. Siamo in troppi su un pianeta che per quasi la sua metà non consente di vivere a centinaia di milioni di esseri umani.
Trovo becera la Lega, che è nata contro il Sud, che diventa o prova a diventare il partito anche dei meridionali. Trovo incomprensibile che i meridionali, trattati da paria in tempi lontani pur essendo necessari all’economia del nord e sbeffeggiati ancor’oggi da minoranze corpose nella cosiddetta Padania, abbiano cercato il cambiamento politico necessario e indifferibile dando fiducia a tromboni che a copertura della propria vocazione coloniale si sono fatti eleggere a Rosarno o altri collegi improbabili. Il cambiamento che nel caso della Calabria è un obbligo di sopravvivenza anche demografica si gioca in casa con o contro i propri politici e amministratori. Se non ci piacciono non li si fa contare più, si mettono fuori squadra e si fanno giocare persone migliori e più capaci.
Per fare tutto questo occorrerebbe recuperare massivamente la storia dei nostri emigranti che invece è conosciuta come quella degli sciamani africani.
Se mi è consentito un ricordo personale: Dorina era una giovane dolce presa in casa come una figlia da una coppia per bene, ma anziana. Per garantire il futuro della giovane la sostennero nella proposta di matrimonio con un corregionale sconosciuto immigrato da tempo in Australia. Avevo cinque anni ma lo strazio di quegli anziani e della loro “figlia” non l’ho mai dimenticato e forse questo mi ha reso più severo verso gli affossatori in servizio permanente della nostra terra.
Un altro ricordo: all’età di 7 anni, emigranti senza un perché a Roma, a bordo del treno diretto fermo a Paola per essere agganciato ad un espresso preveniente dalla Sicilia. La sosta durò abbastanza, ma fu quasi lunga come un abbraccio silenzioso tra un giovane che emigrava presumibilmente oltre oceano e una donna anziana impietrita dal dolore.
Se oggi sono quel che sono, con molti difetti e qualche pregio, lo devo a quei ricordi che ebbi la fortuna di allargare a conoscenza diretta di un fenomeno epocale occupandomi di Emigrazione su incarico del mio partito, il PSI ancora vivo.