La differenza tra un vero storico e un divulgatore consiste principalmente nel fatto che il primo afferma o scrive ciò che è provato da più fonti oggettive, il secondo, che ovviamente ha un pubblico più vasto e benevolo, è quello che piega la storia a tesi e convinzioni precostituite.
Tra questi rientrano sicuramente coloro del “come si stava meglio prima”. Il “prima” risale però al Regno di Napoli della casa borbonica.
La vulgata sostiene che il Sud borbonico era sviluppato, e che la sua arretratezza comincia dopo l’Unità d’Italia a causa dello sfruttamento da parte del Nord.
È una tesi arbitraria, ma su di essa si è costruita una piattaforma di lancio al passato remoto di problemi e responsabilità che sono invece molto più recenti e in buona parte continuano a vivere nel presente.
Ma è vero che con l’Unità d’Italia si continuò a favorire la rendita agraria di parassiti e sfruttatori, come i grandi proprietari, rinunciando in tal modo a creare le condizioni di uno sviluppo del Sud autopropulsivo. Anche quando, a partire dalla fine del sec. XIX, i latifondisti diventano lentamente professionisti, il loro prestigio sociale rimane affidato alla proprietà terriera almeno fino alla metà del Novecento.
L’alleanza fra agrari e industriali bloccò l’imprenditoria agricola del Sud, che aveva già cominciato ad esportare prodotti a coltura intensiva, grazie alla precedente liberalizzazione commerciale. Essa rinsaldò la presa dei grandi proprietari sul Mezzogiorno e il loro feroce impedimento di ogni modernizzazione.
Secondo la magistrale analisi di Salvemini “fu su questa base che si organizzò il potere politico-economico nel Sud. La rappresentanza parlamentare meridionale è fatta di grandi proprietari, i quali appoggiano qualsiasi governo in cambio della protezione dei loro interessi retrivi. A sua volta il ceto medio del Sud, sempre a caccia di rendite parassitarie, vota i latifondisti al parlamento in cambio del proprio monopolio nelle rappresentanze locali di ogni ordine e grado. Queste rappresentanze vengono usate – con tutti i mezzi, legali e illegali – per impinguare le magre rendite”.
Dunque, l’alleanza fra industriali del Nord e agrari del Sud si regge sull’alleanza interna al Sud fra agrari e ceti medi parassitari, e quest’ultima si cementa nel comune sfruttamento dei contadini e dei ceti popolari in genere.
La conseguenza fu il dominio incontrastato della dimensione privatistica; il familismo amorale e il formarsi di un doppio codice comportamentale, quello del finto ossequio al potere formale delle istituzioni e quello della sottomissione al potere reale (ricchi proprietari, crimine organizzato, singoli politici e amministratori).
L’emigrazione imponente dal Sud verso il Nord impoverì il tessuto sociale meridionale, fino al punto che la spesa pubblica destinata allo sviluppo del Sud finì con l’assumere compiti “sostitutivi” impropri. Il Sud divenne così mantenuto dalla spesa pubblica e di fatto escluso da un reale processo di modernizzazione e di crescita politica, culturale e sociale.
Infatti il limite più grave allo sviluppo del Sud fu dato proprio dalla gestione del nuovo reddito fondamentale: le rimesse dello stato. Intorno a questa gestione si aggregò la nuova classe dirigente, che sostituì il vecchio blocco sociale di agrari e borghesi. Essa era fatta di politici, amministratori, imprenditori, tecnici e professionisti a loro legati, faccendieri e capi-clientela. Tutti costoro rappresentavano la nuova borghesia, il cui potere e le cui ricchezze dipendevano molto più dallo stato che da profitti concorrenziali.
La nuova élite riorganizzò la società meridionale in forme politico-clientelari, in cui la logica privata del gruppo, e talvolta persino la logica personale, utilizzavano spazi e strumenti pubblici, e motivazioni di pubblico interesse. Dunque, anche in questa nuova organizzazione della società meridionale, non si affermano – come dominanti – le regole uguali per tutti; il cittadino, come portatore di diritti e doveri; la concorrenza basata sul merito; la regolazione impersonale dei rapporti sociali.
Si creano così i falsi braccianti, falsi artigiani, falsi invalidi, falsi malati del pubblico impiego, falsi disoccupati. I micro-rapporti sociali del Sud creano un mondo di carte false. Si creano anche vincitori di concorsi pubblici manipolati, raccomandati per un qualsiasi esame o richiesta, parassiti annidati nel pubblico impiego, tenacissimi evasori da qualsiasi forma di pagamento fiscale. È una classe dirigente “dissociata dalla produzione”. Con rapporti apparentemente moderni si creò invece una vera corruzione di massa che si estende dalle élite ai ceti popolari.
Questa introduzione, che si fonda su conclusioni largamente condivise, in particolare lo studio Cause prossime e remote dell’arretratezza meridionale di Cosimo Perrotta, mi è sembrata necessaria perché historia non facit saltus e soprattutto perché, se è vero che la storia non salta come un canguro, non significa che debba divenire una specie di laguna stagnante e maleodorante.
Il presente e il passato recente, guardando in particolare alla Calabria, ci introduce a parlare di responsabilità politiche, corruzione, imprenditoria che salvo poche eccezioni non è diventata protagonista di un progetto di ammodernamento, che è incompatibile con il “protezionismo” della cattiva politica, larga presenza della ‘ndrangheta nelle vesti si fornitore di capitali, il conformismo della cultura, delle università, della scuola, dell’informazione.
In parte lo abbiamo fatto, ma ci torneremo come seguito a questo articolo introduttivo. Vedremo che possono cambiare i nomi – non sono oggi “i latifondisti” gli sfruttatori dei calabresi – ma non cambia la sostanza; non sono “i piemontesi” i presunti strozzini del Sud e della Calabria, ma sono nativi doc, meno qualificati dei nordisti, ma più nocivi, letali addirittura, per questa disgraziata regione.
4 Comments
Analisi condivisa in pieno. Impeccabile.
Da dove iniziare per la ” riscossa”?
Questa e’ una mezza o un quarto di verita’ o meglio l’effetto dell’ annessione al Regno dei Savoia e successivamente di precise politiche tese a favorire le regioni del Nord
Sottoscrivo, soprattutto da dove si dice che ” Non sono i piemontesi I presunti strozzini del sud….” Questo è il solito,vile alibi di chi, avendo la possibilità ad ogni livello, politico,amministrativo,economico,sociale ecc. non vuole operare per il reale bene comune , per il progresso della Calabria in particolare.
E la grande sconfitta del presente è il disinteresse di molti giovani che o vanno via o ,non avendo alcuna voglia di inserirsi in una lotta diretta verso un processo di ammodernamento, accettano le vie più facili già percorse dai propri genitori.