Articolo di Nicola Mirenzi del 5 giugno 2022 tratto da Huffpost.
È la più completa incarnazione di una sovrapposizione compiuta nella storia italiana tra due fenomeni cronologicamente appaiati: l’antimafia siciliana che scoprì i legami delle cosche con pezzi della politica, e la spinta di massa che sostenne la lotta alla corruzione del pool di Tangentopoli. Non ama i referendum sulla giustizia, ma dice: “Parlerò poi”
Del referendum sulla giustizia, ha detto Nicola Gratteri, parlerà solo dopo il voto sul referendum: “Poi vi dico, poi vi dico”, ripete a chi glielo chiede. Tanto quel che pensa è chiaro anche senza che ne parli. Con l’aura di Falcone, e l’italiano claudicante di Di Pietro, in ogni trasmissione televisiva in cui è invitato (negli ultimi dieci giorni, sono state quattro), il procuratore della Repubblica di Catanzaro ripete un allarme epocale: “Tira una brutta aria di restaurazione”. La rivolta che si vorrebbe soffocare, secondo Gratteri, è quella cominciata trent’anni fa con la lotta a Cosa Nostra, poi convertitasi in sollevazione morale contro i partiti attraverso Mani Pulite: “Oggi i magistrati sono molto deboli”, dice, “c’è quasi un clima di vendetta della politica”. E ancora: “Trent’anni fa, quando un politico riceveva un avviso di garanzia se ne vergognava. Oggi chiama i giornalisti per dargli la notizia”.610
Nicola Gratteri – 63 anni, di cui metà passati a combattere contro la ‘ndrangheta – è uno dei pochi magistrati la cui credibilità è sopravvissuta allo sconquasso del caso Palamara. Qualche giorno fa, appena è salito sul palco del Maurizio Costanzo Show, il pubblico è scattato in piedi ad applaudirlo come un eroe. E nel tripudio, Gratteri ha detto che con il governo “non ci siamo proprio”, perché il presidente del consiglio Draghi è solo un economista e non sta facendo nulla per la sicurezza e contro la criminalità. “Capisce solo di finanza. Punto”.
L’immagine è significativa se accostata a un frammento di trent’anni prima, il 26 settembre del 1991, quando alla stessa trasmissione di Costanzo andò Giovanni Falcone, pochi mesi prima che lo uccidessero. Leoluca Orlando lo incolpò di non andare a fondo nelle indagini su Salvo Lima e Roberto Galasso di essersi fatto irretire dal potere romano: “Non mi piace che stai dentro il Palazzo del governo, Giovanni, non mi piace”, come se il problema fossero i suoi rapporti con lo stato, non la mafia.
Falcone accusato, Gratteri accusatore: cos’è successo nell’Italia di questi trent’anni per poter assistere a un capovolgimento così radicale della scena? La risposta è forse in una sovrapposizione che Gratteri sembra incarnare finanche nel suo corpo: un po’ Falcone, appunto, per la minaccia che incombe costantemente sulla sua vita e lo costringe a “ragionare con la morte”, un po’ Di Pietro per la ruspante propensione a puntare il dito, attingendo anche ai registri più punitivi e moralistici del linguaggio pubblico: “Se una persona ha ucciso e non si è pentito che facciamo, gli diamo anche un premio?”, ha detto scandalizzato dal progetto di autorizzare le relazioni sessuali delle persone in carcere. E serenamente parla di “conigli” che stanno nelle istituzioni e del parlamento come di un posto in cui “comandano otto, dieci persone al massimo: gli altri votano quello che gli dicono di votare”.
Di Falcone, Gratteri ha il nemico che lo ossessiona. “Ho iniziato a fare indagini nell’89” racconta, quando la ‘ndrangheta era ancora considerata un’associazione di contadini arretrati nella sperduta e inutile Calabria. “Dopo aver sparato sotto casa della mia fidanzata, l’hanno chiamata al telefono e le hanno detto: ‘Stai per sposare un morto’”. Ha visto il corpo di un suo compagno di banco ucciso di lupara quand’era un ragazzino e ha arrestato diverse persone con cui nell’infanzia giocava a pallone prima che suonasse la campanella a scuola. Viene da Gerace, nella locride, posti che né il cinema, né la televisione, né la narrativa dei giusti hanno mai raccontato, preferendo ambientare il crimine organizzato nella mitologia di Gomorra, Suburra, del Romanzo Criminale, e sebbene la ‘ndrangheta sia l’organizzazione mafiosa più potente e pericolosa d’Europa.
Di Antonio Di Pietro, Gratteri ha una concezione del diritto che tende a considerare le garanzie dell’individuo di fronte allo stato un ostacolo al perseguimento del crimine. “Non bisogna toccare un detenuto neanche con un dito”, dice. “Altrimenti passa dalla parte della vittima e si fa solo il suo gioco”. E non perché deve essere rispettata la dignità di qualsiasi essere umano, anche quella di un assassino. “Gli sconti di pena? Non bisogna mai dimenticare che dall’altra parte ci sono persone che non possono vedere la moglie e i figli nemmeno attraverso un vetro, perché sono sepolte sotto terra”.
Come è accaduto già a Falcone, di recente Gratteri non è stato nominato al vertice della procura nazionale antimafia. “Per questo – ha detto –, dal punto di vista della ‘ndrangheta, io sono uno sconfitto”. Ma come è accaduto dopo Tangentopoli con Di Pietro, da Matteo Renzi fino a Giorgia Meloni, tutti vorrebbero avere Gratteri dalla propria parte. Renzi lo propose come ministro della giustizia e il capo dello stato, Giorgio Napolitano, lo bloccò per la consuetudine costituzionale di considerare un magistrato inappropriato per quel ministero. Meloni, invece, di recente gli avrebbe offerto una candidatura nelle liste di Fratelli d’Italia.
Nicola Gratteri è un po’ Falcone e un po’ Di Pietro anche agli occhi degli italiani che lo guardano: da una parte è il magistrato di cui ci si fida per la testimonianza che offre ogni giorno rischiando la vita, dall’altra è il magistrato a cui ogni tanto ci si vorrebbe affidare, per spazzare via quelli che non rischiano mai nulla.
E in effetti Gratteri è la più completa incarnazione di una sovrapposizione che è stata compiuta nella storia italiana tra due fenomeni cronologicamente appaiati, ma diversi tra loro: l’antimafia siciliana che scoprì i legami delle cosche con pezzi della politica, e la spinta di massa che sostenne la lotta alla corruzione del pool di Tangentopoli, come se la lotta a Cosa Nostra dei giudici siciliani fosse stata null’altro che il primo tempo di una rivolta contro la politica nel suo complesso, della cui missione salvifica la magistratura fu investita.
“Oggi c’è un abbassamento della morale e dell’etica che sta provocando uno sfascio nella testa degli italiani”, ha detto Gratteri. Sebbene sia stata la fiducia nella magistratura che è caduta negli italiani, non quella nei magistrati che lottano contro la mafia. Eppure nella testa di Gratteri le due cose si tengono, quasi che non si possa distinguere tra magistrati e magistrati, poiché nel loro insieme, come corpo, essi sono e devono rimanere un contropotere. “Si è accumulata molta rabbia nei confronti della magistratura – dice –, ora c’è voglia di sfogare questa rabbia”. Ma un conto è Di Pietro, un altro conto è Falcone: prima o poi, forse, anche Gratteri dovrà scegliere se vorrà assomigliare più al primo o più al secondo. Comunque vada il referendum.