Preannunciare che alla ripresa delle pubblicazioni avrei indossato i panni dell’“inviato speciale” a Cosenza per capirne un po’ meglio l’identità, quanto di buono le è rimasto e quanto di cattivo è riuscito nel tempo a intossicarla è stato un gesto temerario.
Perché lo sia è facile da spiegare: a parte i grandi inviati speciali degli anni a cavallo della Seconda guerra mondiale, con i quali certo neppure per ischerzo oso somigliare, l’aggettivo “speciale” che si dava solo a un certo tipo di “inviato” (sul posto, spesso remoto, sconosciuto ai più perché l’informazione era solo cartacea e arrivava in ritardo sempre rispetto agli eventi da raccontare) ad indicare non un semplice, seppur bravo, giornalista ma una specie di esploratore. Era speciale anche perché con le solo parole scritte e dettate agli stenografi del giornale riusciva ad andare oltre quel che appariva, ma a capirne le ragioni, a predirne il futuro prossimo. Le parole erano efficaci quasi quanto le immagini e non se ne sentiva la mancanza. Se posso fare un paragone un po’ azzardato, penserei ai film in bianco e nero che avevamo salutato con gioia per aver ceduto il passo al colore ed ora il film più visto ed apprezzato della stagione, regista e protagonista Paola Cortellesi, in bianco e nero ci rivela che il colore va bene in infinite circostanze, ma per certi film il bianco e nero è l’abito perfetto da far indossare a certe storie, che ne guadagnano in efficacia e profondità.
Questa premessa, con qualche forzatura, mi aiuta a far capire perché mi autodefinisco “inviato speciale”, per scrivere della città dove sono nato, che pur se ritrovata da pochi anni venendoci a vivere non è una scoperta inedita di cui rendere partecipi lettori, che calabresi o cosentini in gran parte lo sono e ne sanno o dovrebbero non aver bisogno di nessun inviato, speciale e non.
In realtà ho l’impressione che non sia il solo a non conoscere o a non riconoscere Cosenza. Ovviamente nessuno immagina che il tempo si sia fermato per consegnarci l’immagine della città di 40 o 50 anni fa. Ma il tempo di sicuro cambia l’aspetto fisico della città, non più palazzi altri massimo tre piani per ragioni sismiche, o abitazioni sbrecciate anche vicino al cuore della città come Corso Mazzini diventata finalmente ora isola pedonale.
Ci sono realtà “immateriali” – un ossimoro – che non debbono cambiare per forza con il tempo che passa. Se la nostra gente era nota per la sua ospitalità, per la sua bonomia e attenzione agli altri, quelli più anziani e fragili, che venendo da paesi vicini che però obbligavano a spostamenti che sembravano lunghi e faticosi in città, in una piccola città, si muovevano impacciati e intimiditi, ecco tutto questo che è segno identitario dei luoghi non era detto che dovesse, se non sparire, diventare merce rara da apprezzare e godere.
Cosenza oggi ha perso molto, troppo della sua natura e della sua identità profonda. Non è la sola, ma se tu togli a una città non grande queste caratteristiche perché dovrebbe piacere alla gente che viene da fuori, alle molte persone che con quei valori si sono formati ed hanno cercato, spesso senza riuscirvi, di trasmetterli ai figli e ai giovani, perché dovrebbe dirsi diversa e migliore di altre città calabresi o genericamente meridionali?
Non è il banale ricorso agli epiteti non elogiativi, terroni contro polentoni, che non è solo un malvezzo con molte tracce di razzismo indigeno, ma l’espressione di una diversità tra italiani che non è necessariamente a nostro svantaggio.
Chi vive a Parma, ne apprezza la bellezza, l’efficienza che da noi è un’eccezione, la qualità dei servizi, la qualità delle classi dirigenti. Magari pensiamo “beati loro” perché noi al loro confronto spesso sembriamo “sgarrupati”, ma in fondo siamo contenti d’essere come siamo o come potremmo essere.
Cosenza è priva di un’identità vera, profonda, non superficiale e convenzionale.
Quando da realizzatore della Fondazione Giuliani, divenuta oggi una scatola vuota e senza utilità, mi chiedevo cosa sarebbe stato giusto, utile e necessario per dare una “missione” a Villa Rendano, dopo aver incontrato i vertici del FAI che erano interessati ad acquisire la Villa avendo equivocato le parole di Sergio Giuliani, mi venne in mente di replicare una piccola (ma non lo sapevo) realizzazione che, con mezzi spartani, utilizzando foto sbiadite, immagini sgranate, ricordavano come era la Matera degradata dei Sassi prima del loro risanamento, che ha fatto divenire una città sconosciuta agli stessi italiani una meta ambita, colta, rispettosa della memoria, non un bazar di cianfrusaglie come in tante altre città, Cosenza compresa.
Nacque così Consentia Itinera che non avevo chiamato museo (la scelta fu fatta dopo alcuni mesi dalla direttrice Cipparrone) ma “percorso multimediale nella storia antica di Cosenza”. Era a mio parere la definizione giusta, perché univa l’idea del muoversi all’interno della memoria storica per recuperare l’identità tutt’altro che povera e mediocre della città.
Quella realizzazione che avrebbe dovuto avere un seguito come Centro civico, luogo di aggregazione dei cittadini ancora resiste alle meschine e squallide ambizioni degli occupanti.
Sembrerò presuntuoso, ma l’augurio che faccio a Cosenza che a forza di sbattere contro il muro della inutilità incolta e corrotta di Tribunali, Università, Pubblica Amministrazione, ma anche uomini e donne di qualità, riesca nell’indifferenza dei cosentini, a ridare lustro e dignità alla Villa.
Ho già pronto il titolo, che credo meno avveniristico e fantasioso di quanto si creda, dell’articolo di apertura de I Nuovi Calabresi (se io e il giornale ci saremo): “Liberata Villa Rendano, presi a calci in culo i barbari occupanti”. Ricordatevelo, perché io che non so cosa significhi ottimismo lo credo possibile, anzi probabile.
Chi mi conosce bene pensa, con un po’ di azzardo, “è sicuro”.