Per non cadere nella trappola di essere sospettato di antisemitismo – cosa che ripugna chiunque ricordi la persecuzione nazista e la lunga serie di persecuzioni contro gli ebrei che hanno scandito la storia secolare dell’Europa in particolare – ho sempre letto libri di storici ebrei, incredibilmente liberi e onesti nel loro racconto. Oggi riferirò alcuni passi di Ilan Pappè, lo storico più rigoroso, più coraggioso e più incisivo di Israele.
Per avere invece una conoscenza della realtà nella quale vivono i palestinesi, non nella Striscia di Gaza rappresentata da sempre come terra del diavolo, senza distinzioni tra gente pacifica e sofferente e milizie armate definite terroristiche, preferisco leggere libri, non saggi storici, di autori e più spesso autrici palestinesi.
Considero un capolavoro e una testimonianza di cui fidarsi “Ogni mattina a Janin” di Susan Abulhawa, nata da una famiglia palestinese in fuga dopo la guerra dei sei giorni (1967) e vissuta i primi anni in un orfanatrofio di Gerusalemme.
La scelta delle fonti israeliane, le più libere, oneste e meno agiografiche, dovrebbe essere seguita da commentatori e giornalisti in Italia e in genere ovunque. E passando alla letteratura si opta per quella Abraham Yeoshua, David Grossmann, Amos Oz, solo per citarne alcuni.
Questa premessa ci porta al libro che consiglierei a tutti di leggere “La prigione più grande del mondo – Storia dei territori occupati” di Ilan Pappè. Ma ancor prima voglio ricordare un docente dell’Università di Gerusalemme, di non ricordo più il nome nonostante ci sia stato tra noi un bel rapporto in occasione della sua collaborazione con le FS di Lorenzo Necci.
A me che ripetevo la versione ufficiale di Israele e dei suoi amici americani, che l’esistenza di due stati, uno palestinese e un altro ebraico, era reso impossibile dal numero ormai altissimo di coloni nella Cisgiordania, il mio amico un giorno venne da me con una carta molto dettagliata di Israele e punteggiata di pallini rossi. Si trattava di decine, non centinaia, o più di pallini che indicavano dopo oltre 20 anni dalla guerra lampo del 1967 le colonie che si erano costituite con il diffondersi dei kibbuz.
“Ecco” – disse il professore X – “queste centinaia di coloni, alcuni appena insediati, pensi che possano da soli impedire la nascita di due stati che gli statisti israeliani del tempo, Rabin e Shimon Peres su tutti, volevano perché convinti che fosse la sola soluzione possibile alternativa a quella che poi prevalse, quella della prigione a cielo aperto più grande mondo?”.
Pappè parte dal ricordo della prigione denominata Panopticon, originariamente concepito da Jeremy Bentham, il primo filosofo che pensava che il sistema penale dovesse essere coercitivo; dopo la guerra del 1967 la decisione israeliana fu quella di isolare in un moderno Panopticon i palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
In concreto cos’era il Panopticon? Era inteso “come un sistema di controllo che non necessita di barriere fisiche e in cui le guardie rimangono invisibili”.
Ma questo modello si applica solo ad una parte dei palestinesi ingabbiati nella mega prigione di Israele.
Per altri “prigionieri” si applica un modello che li costringe a percepire nella maniera più concreta possibile le barriere, il filo spinato e le mura.
A proposito di muri, noi abbiamo la triste memoria di quello che separava Berlino est comunista e Berlino ovest amministrata dagli occidentali.
Ce lo immaginavamo fosse come la muraglia cinese. Se vediamo gli spezzoni rimasti a memoria di quell’obbrobrio ci sorprendiamo perché sono non altissimi, credo non più di 3 o 4 metri, non incombenti. Se andate a Betlemme, 5 km da Gerusalemme, trovate la versione israeliana che incombe come un palazzo di tre piani, con tanto di sbarre di confine che non sempre si alzano per far passare i palestinesi (governati in teoria dall’Autorità palestinese) dopo aver fatto una fila anche di un’ora per andare a lavorare a Gerusalemme. La nostra guida per mezza giornata ci ha lasciati soli perché per motivi ignoti i soldati di guardia avevano deciso così.
Giacché sul tipo di “prigione” inflitta come pena collettiva per “un crimine mai commesso” c’erano due linee di pensiero si decise salomonicamente per la Cisgiordania e Gaza, entrambe, le versioni del megacarcere.
Una era una prigione a cielo aperto stile Panopticon – Gaza –, l’altra un carcere di massima sicurezza per chi non avesse accettato la prima.
Il libro di Pappè di 400 pagine è ricco di particolari inediti e non citati dalla stampa e dalla tv in, ma una cosa è chiara dopo la lettura: ci sono terroristi palestinesi, da condannare senza se e senza ma, così come, specie tra i coloni, violenti e prepotenti, ma la morte, la sofferenza, la miseria deve procurare dolore, rabbia o pietà da qualunque parte provenga. E questa cosa semplice, banale non sta accadendo in queste settimane e temo che non rimarrà senza conseguenze gravi per tutti noi. Non è tempo di Ponzi Pilati.